I remember. Mi ricordo.
“I remember the only time I ever saw my mother cry. I was eating apricot pie”.
Così scriveva Joe Brainard verso la fine degli anni Sessanta in un volumetto intitolato I remember (Mi ricordo). Questo poliedrico artista rinnovò in maniera radicale il modo di scrivere autobiografia trasformandola in una raccolta di frammenti di ricordi in ordine sparso, scritti come li scriverebbe chiunque. Della serie: potevo farlo anch’io.
Un esercizio che potremmo praticare anche noi, se non altro per rimettere in moto la creatività. I ricordi, si sa, sono come le ciliegie: uno tira l’altro. Tutti noi abbiamo dei ricordi, più o meno vividi, più o meno belli: giochi, amori, litigate, ansie da esami, spiagge, sciate, e _ perché no _ cibi.
“I remember a story about a couple who owned a diner. The husband murdered his wife and ground her up in the hamburger meat. Then one man was eating a hamburger at the diner and he came across a piece of her fingernail. That’s how the husband got caught”. Quando si sceglie il junk food, non si sa mai cosa si mangia… Sappiatelo!
Tutti potrebbero scrivere dei “mi ricordo”, ma nessuno potrà mai scrivere un “mi ricordo” uguale a quello di un altro. E’ una sorta di appello alla memoria collettiva: memorie personali e memorie condivise da tutti.
Chi non ha, nella sua personale dispensa dei ricordi, un piatto particolarmente gustoso? A Joe Brainard piaceva la vaniglia, a me il cioccolato. “I remember vanilla pudding with vanilla wafers in it and sliced bananas on top”. Io, da piccola, cospargevo di abbondante Nutella una fetta di pan carré e ci affettavo sopra una banana ben matura. Da provare!
Chiunque può fare l’esercizio di scrivere i ricordi, chiunque può cucinare. “No, ma io non so scrivere”. “No, ma io sono una frana in cucina”. La “vocina cattiva” che è in noi sta sempre in agguato per sabotarci: zittiamola!